Il 17 novembre 2017 moriva Salvatore Riina, chiamato anche “Totò û curtu” per la bassa statura o la “belva” per la sua inconfondibile ferocia.
Chi era Totò Riina?
Riina è stato il capo indiscusso di Cosa Nostra, organizzazione criminale localizzata prevalentemente in Sicilia, dal 1982 al 1993, quando fu arrestato.
Totò nacque a Corleone da una famiglia di contadini e sin da giovanissimo strinse un forte legame con Luciano Liggio e Bernardo Provenzano, altri due importanti boss di Cosa Nostra.
Sin da adolescente scontò i primi anni di carcere all’Ucciardone di Palermo, preparando la propria ascesa criminale.
La seconda guerra di mafia
Negli anni 80, insieme al suo gruppo di criminale, “i Corleonesi”, scatenarono la seconda guerra di mafia, uccidendo la maggior parte dei mafiosi palermitani che reggevano la Cupola di Cosa Nostra, dichiarando guerra ai Bonate, ai Buscetta, alle principali famiglie della cupola, radendo al suolo la mafia storica e uccidendo magistrati, carabinieri e poliziotti. Erano gli anni del terrore, della ferocia, dei morti ammazzati per le strade.
Salvatore prese il potere e divenne il capo indiscusso di Cosa Nostra, ottenendo importanti appoggi politici, come quelli di Vito Ciancimino, all’epoca sindaco di Palermo, Salvo Lima, politico della corrente Andreottina in Sicilia, ma anche l’appoggio di altri importanti personaggi di spicco, come i Cugini Salvo.
Il Maxiprocesso e le stragi del 1992
Nel 1987 grazie al pool antimafia di Palermo, composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Guarnotta e Di Lello, guidato prima da Rocco Chinnici e poi Antonino Caponetto, fu istruito il Maxiprocesso di Palermo, il processo che riuscì a condannare i principali esponenti di Cosa Nostra.
Totò Riina e gli altri boss, a seguito della sentenza che rese definitive le condanne, decise di vendicarsi, prima nei confronti dei politici che non mantennero le promesse e non impedirono l’annullamento delle condanne e poi nei confronti dei magistrati, uccidendo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nei mesi successivi.
La Trattativa Stato-mafia
A seguito delle stragi, alcuni uomini delle istituzioni iniziarono ad intavolare una trattativa tra lo Stato e la mafia, per far cessare la scia di sangue da un lato, ed concedendo in cambio, un alleggerimento di trattamento nei confronti dei mafiosi.
Famoso è il Papello scritto da Riina, con il quale fece presente a quegli uomini delle istituzioni, tutta una serie di richieste, tra cui l’abolizione del 41 bis, abolizione dell’ergastolo, e molto altro, cercando di far cedere lo Stato.
Nel 1993 fu arrestato dal gruppo investigativo guidato dal Capitano Ultimo, grazie alle dichiarazioni del suo ex autista Di Maggio e per 24 anni, rimase in carcere sotto il regime del 41 bis, il carcere duro previsto per i mafiosi.
Morì due anni fa per un tumore, ma nonostante tutto il dolore provocato, la sofferenza, la violenza, non si è mai pentito. Non ha mai deciso di collaborare con la giustizia, anzi, negli ultimi anni si vantava di tutto ciò che aveva fatto, di quello che era diventato.
Gli ultimi anni in carcere di Totò Riina
I pubblici ministeri di Palermo chiesero di intercettarlo in carcere, durante le sue lunghe conversazioni con il suo compagno dell’ora d’aria, il boss pugliese Alberto Lorusso. Dalle intercettazioni venne alla luce l’anima nera di Cosa Nostra, la sua arroganza, le sue manìe di grandezza. Si vantava della morte di Giovanni Falcone: “Gli ho fatto fare la fine del tonno”.La stessa fine che invocava per il pm Nino Di Matteo: “Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono”. Ha sempre sottolineato di non essere mai stato il burattino di nessuno, il pupo di forze esterne a Cosa Nostra, sebbene abbia più volte fatto riferimento a personaggi esterni all’organizzazione criminale,non negandone quindi mai l’esistenza. Riferì un giorno: “Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”. “I servizi segreti gliel’hanno presa l’agenda rossa”. Riferendosi a Paolo Borsellino.
“Sono diventato una cosa immensa, sono diventato un re – sussurrava a Lorusso – se mi dicevano un giorno che dovevo arrivare a comandare la storia… sono stato importante”.
Questo era Totò Riina, un mafioso che ha vissuto con il sogno di conquistare il potere, diventando un re, diventando qualcuno da temere, facendosi strada con la ferocia, la violanza, le intimidazioni.
Per tanti anni ha vissuto da latitante, nascondendosi, scappando, gli altri invece, chiuso come un topo in gabbia, anche in quei momenti si sentiva un re? Alla fine è morto portando con sé i suoi segreti, segreti indicibili, da far rabbrividire mezza Italia.
E se invece avesse collaborato con la giustizia? Se avesse fatto cadere tutti gli altarini, mettendo in luce i politici corrotti, le azioni poco limpide di uomini delle istituzioni, cosa sarebbe successo?
Forse soltanto in quel caso avrebbe davvero ottenuto il potere, quello di mettere in luce una parte dell’Italia, quella marcia, che ancora si nasconde dietro di lui. Forse si, forse solo in quel caso, avrebbe davvero ottenuto tutto il potere, il potere di controllo,quello sognato da molti.
Invece no, ha tenuto fede a quel vincolo di omertà sul quale poggia tutta l’organizzazione, i cui membri in un modo o nell’altro, sono stati e saranno sempre destinati a rincorrere un potere effimero, perché o vivranno in carcere, o come latitanti, oppure, nell’ipotesi più grave moriranno, moriranno per chi poi? Per un’organizzazione criminale pronta a rimpiazzarli poco dopo. Forse un giorno capiranno che il vero potere sarà quello della parola, della denuncia, quello di smascherare chi nasconde la propria anima nera dietro toghe o divise.