Falcone nacque a Palermo il 18 maggio 1939, nel quartiere la Kalsa, lo stesso quartiere del suo amico e collega Paolo Borsellino. Amavano tanto giocare insieme a pallone, anche con gli altri ragazzi del quartiere, molti dei quali sarebbero poi diventati dei boss spietati di Cosa Nostra.
Si iscrisse a giurisprudenza con il massimo dei voti ed una volta conseguita la laurea, superò il concorso in magistratura.
Falcone infatti, aveva una grande passione per il diritto, avvertiva un profondo senso dello Stato e delle istituzioni.
Credeva nella possibilità di eliminare le disuguaglianze, immaginando un Paese senza disparità, propenso all’attuazione concreta di quell’uguaglianza sostanziale sancita nella Carta Costituzionale.
Per questo motivo si avvicinò al partito comunista di Berlinguer, ma non lasciò mai che le sue idee politiche potessero influenzare il suo lavoro.
L’amore con Francesca Morvillo
Amava profondamente sua moglie, Francesca Morvillo, con la quale condivideva valori ed ideali. Anche lei era magistrato, molti colleghi infatti, l’hanno sempre descritta come una professionista seria e scrupolosa. Giovanni e Francesca avevano lo stesso modo di vedere la vita, decisero infatti, di non avere figli perché come diceva sempre Falcone:”Non volevano dare alla luce degli orfani”, data la situazione di pericolo costante nella quale vivevano.
Francesca fu capace di stare accanto al suo uomo in ogni momento, condividendo non solo gli stessi ideali, ma la stesso spirito di servizio. Condivise ogni istante con Giovanni, persino il momento più brutto, quello della morte.
“Il metodo Falcone”
Nel 1979 arrivò la svolta: Rocco Chinnici, propose a Falcone di lavorare nell’ufficio Istruzione di Palermo, insieme al suo amico Paolo Borsellino.
Gli fu assegnata un’indagine su Rosario Spatola, che lavorava nel campo edile e godeva di ingenti somme di denaro derivanti dal traffico droga.
Grazie a questa indagine nacque il “metodo Falcone” che consisteva nel controllare i movimenti bancari dei sospettati per risalire ai loro traffici illeciti.
Il suo motto era “segui i soldi e troverai la mafia”.
Scoprì tutti i collegamenti derivanti dal traffico di droga tra Cosa Nostra e la mafia americana, dando vita all’operazione “Pizza Connection” che gli permise di collaborare con le più importanti autorità americane, dalla DEA all’FBI, le quali riconobbero subito le eccezionali capacità, intuizioni e conoscenze del magistrato.
Quando nel 1980 però, fu ucciso Gaetano Costa, procuratore capo di Palermo gli fu assegnata la scorta. Quello rappresentò il primo momento decisivo della vita professionale e privata nel magistrato.
La guerra di mafia
Gli anni 80 furono gli anni della seconda guerra di mafia, che insanguinò la Sicilia, provocando centinaia di morti.
Furono uccisi: Pio la Torre, Dalla Chiesa, Boris Giuliano e tanti altri servitori dello Stato.
I Corleonesi chiamati anche “le belve” per la crudeltà e la violenza, dichiarano guerra alla mafia storica, quella dei Bontate, dei Buscetta, Badalamenti. Addirittura Tommaso Buscetta per sfuggire all’ondata di morte dei Corleonesi, scappò in Brasile.
I morti erano all’ordine del giorno, la situazione peggiorava sempre di più, così Rocco Chinnici pensò alla creazione di un pool di magistrati che fosse in grado di occuparsi esclusivamente di mafia.
Nacque il pool antimafia di Palermo
I magistrati del pool erano:Falcone, Borsellino, Guarnotta e Di Lello. Il 29 luglio 1983 fu ucciso Rocco Chinnici ed arrivò Antonino Caponnetto a sostituirlo, il quale sviluppò l’idea del suo predecessore ottenendo ottimi risultati. Il pool antimafia era composto da magistrati che si occupavano esclusivamente mafia, in modo da scambiarsi informazioni, evitando l’isolamento di ciascuno di loro e ricostruendo un puzzle più grande.
Tommaso Buscetta
Nel 1984 il “boss dei due mondi”, decise di collaborare con il pool, in particolare con Giovanni Falcone. Raccontò cosa fosse Cosa Nostra, come fosse strutturata, rivelò le regole ed i meccanismi, e quelle dichiarazioni, insieme a quelle di Contorno ed altri collaboratori, furono fondamentali per l’istruzione del Maxi processo. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nell’agosto 1985, per poter completare l’scrittoria del maxi processo, furono trasferiti insieme alle famiglie sull’isola dell’Asinara perché dopo l’uccisione di Beppe Montana e Ninni Cassarà, si iniziò a temere anche per la loro vita.
Il film che racconta quel periodo è “Era d’estate“, un film che descrive tutti i momenti vissuti insieme, momenti densi di pressione, paura e tanto lavoro, i momenti più complicati.In quella calda estate, i due magistrati si occupano dell’istruzione del primo Maxiprocesso alla mafia con la presenza di 475 imputati. Il processo si concluse con pesanti condanne, che vennero confermate quasi tutte in Cassazione.
La fine del pool antimafia
Dopo l’esperienza del Maxiprocesso le cose iniziarono a peggiorare. Borsellino venne nominato Procuratore della Repubblica di Marsala e lasciò il pool. Nel frattempo anche Antonio Caponnetto lasciò il pool per motivi di salute e si aprì la corsa per l’assegnazione del suo posto.
Il naturale erede di Caponnetto era ovviamente Giovanni Falcone, ma il CSM nominò Antonino Meli.
Si aprì un forte dibattito, tant’è che lo stesso Paolo Borsellino che denunciò pubblicamente quello che stava accadendo,facendo riferimento alla fine del pool, rischiò sanzioni disciplinari.
Si creò un clima di isolamento e di ostilità nei confronti dei magistrati del pool ed in particolare nei confronti di Giovanni Falcone, come se molti avessero voluto screditare tutto il lavoro che era stato fatto fino a quel momento. Meli non continuò il lavoro intrapreso dai suoi predecessori, infatti dopo vari constasti con Falcone sciolse il pool.
Il fallito attentato all’Addaura e la stagione dei veleni
Giovanni Falcone durante l’estate del 1989, decise di passare del tempo in una casa al mare in una località chiamata Addaura, per rilassarsi e godersi un po’ di riposo.
Il 21 giugno però, vennero scoperte dalla scorta, delle cariche di tritolo nascoste tra gli scogli, pronte ad uccidere chiunque si trovasse in quella zona. Grazie agli agenti, quell’attentato fallì.
Falcone ipotizzò che dietro quell’attentato e dietro ad alcune azioni della mafia, ci fossero altri soggetti che definì “menti raffinatissime”, soggetti esterni a Cosa Nostra in grado di orientarne le azioni. l clima di isolamento al quale fu sottoposto, si fece insostenibile, soprattutto quando alcuni ipotizzarono che l’attentato lo avesse organizzato lui stesso per ottenere maggiore notorietà. Infatti in un’intervista disse:
« Questo è il paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa e la bomba per fortuna non esplode, la colpa è la tua che non l’hai fatta esplodere.»
Più passava il tempo e più il clima di ostilità nei suoi confronti cresceva. Arrivavano quasi quotidianamente delle lettere anonime dal cosiddetto “corvo“, che cercavano di minarne la credibilità. Erano lettere anche abbastanza dettagliate e quindi molti ipotizzarono che l’autore fosse proprio un magistrato. Fu accusato di mantenere nascosti nei cassetti dei documenti importanti, che avesse pilotato il ritorno di Contorno per debellare i Corleonesi.
Si aprì un duro capitolo della vita di Giovanni Falcone, che fu poi denominata la “stagione dei veleni”: la fase della critiche, degli attacchi, dell’isolamento più acuto.
Egli però continuò il suo lavoro, occupandosi di indagini particolarmente delicate: quelle relative al riciclaggio e quelle relative ai delitti politici eccellenti.
Successivamente si candidò alle elezioni dei membri togati del CSM, ma non fu eletto e quando si rese conto di non riuscire più a lavorare in quelle condizioni difficili a causa del rapporto controverso con il Procuratore Capo Giammanco, lasciò la procura.
Decise a questo punto, di accettare la proposta di Claudio Martelli, ministro di Grazia e Giustizia di dirigere la sezione Affari Penali del ministero.
Questo rappresentò per Falcone, un’altra importante fase da superare.
Venne accusato di essere troppo vicino alla politica, di essersi venduto alla stessa, di aver minato all’indipendenza della magistratura.
Tutti questi attacchi continui non fecero altro che isolarlo, ma lui aveva un sogno: creare una Procura Nazionale Antimafia in grado da coordinare tutte le altre nello svolgimento delle indagini sulla criminalità organizzata.
Falcone immaginava una lotta alla mafia che andasse oltre le singole procure, i singoli magistrati, i singoli poliziotti, immaginava una rete, che puntualmente venne criticata o forse idea, gelosamente invidiata.
Il 30 gennaio 1992 furono confermate quasi tutte le condanne del Maxiprocesso ed il 12 marzo 1992 fu ucciso Salvo Lima, massimo esponente della DC in Sicilia.
Quell’omicidio fu un segnale chiaro per tutti i politici che non furono in grado di impedire le condanne. La mafia si stava preparando alla “pulitura dei rami secchi” e alla individuazione di nuovi interlocutori.
La strage di Capaci
Il 23 maggio 1992 Cosa Nostra si vendicò, organizzando la strage di Capaci in cui persero la vita: Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo. Abbiamo ricostruito tutti i passaggi della strage in questo articolo: https://www.raccontaresignificaresistere.it/wp-admin/post.php?post=1072&action=edit
Disse Totò Riina che Giovanni Falcone aveva fatto più danni a Roma che a Palermo, quindi fu ucciso non soltanto per il duro colpo inferto alla mafia con il Maxiprocesso e tutte le altre indagini svolte a Palermo, ma anche per tutto quello che avrebbe continuato a fare a Roma con la Superprocura.
Ancora oggi però, non si conosce tutta la verità, furono condannati gli esecutori materiali della strage, ma nessun mandante esterno.
Dopo la morte tutti gli attacchi e le delegittimazioni da parte della politica e della magistratura cessarono. Tutti improvvisamente riconobbero la grandezza del magistrato che avevano ostacolato pochi giorni prima.
Il magistrato Ilda Bocassini più volte denunciò la situazione di difficoltà ed isolamento vissuta da Falcone.
Ricordò così il suo amico e collega:
“Credo che la ragione vada rintracciata nell’ipocrisia del Paese, nel senso di colpa della magistratura, nella cattiva coscienza della politica. Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte.
Non c’è stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone. E’ stato sempre “trombatissimo”. Bocciato come consigliere istruttore. Bocciato come procuratore di Palermo. Bocciato come candidato al Csm, e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso. Dieci anni fa, per dar conto delle sue sconfitte.
Eppure, nonostante le ripetute “trombature”, ogni anno si celebra l’esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di “amici” che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito”.
Ilda Bocassini
L’eredità di Giovanni Falcone
Falcone amava la vita, amava trascorrere delle piacevoli serate in compagnia, tra risate e canzoni. Credeva profondamente nell’amore che lo legava alla moglie Francesca, un amore capace di superare tutto, anche la morte, Credeva nell’amicizia, in particolare a quella che lo legava al suo collega e amico di infanzia Paolo Borsellino, più volte definiti dai parenti e dagli amici come dei fratelli. Nelle nostre menti, riecheggia ancora il discorso che fece Borsellino dopo la strage di Capaci, parole piene di dolore, ma anche di speranza:
“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte.
Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato, che tanto non gli piaceva. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene.
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Giovanni Falcone è stato questo e molto altro, non basterebbe un articolo per descrivere tutto ciò che rappresenti per noi, è stato un uomo che nonostante la paura, nonostante le minacce, gli insulti, è sempre andato avanti, perché credeva profondamente nel suo lavoro, considerava la mafia “un fenomeno umano, che appunto per questo era ed è destinato a concludersi”. Però, seppe sempre distinguere la mafia, intesa come organizzazione criminale, dalla mentalità mafiosa, la mentalità che appartiene anche a chi non è mafioso, ma omertoso, indifferente. Giovanni aveva capito l’importanza di non considerare la mafia come un cancro da combattere, ma come qualcosa che ci assomiglia, dentro ognuno di noi c’è una parte che ci spinge verso il male, che ci spinge verso la direzione sbagliata, la lotta alla mafia dunque, è una lotta quotidiana, dentro e fuori di noi. Una lotta per la quale, magistrati come Falcone e Borsellino hanno sacrificato tutto: il tempo, la famiglia, la propria vita. Hanno vissuto per anni blindati, senza la possibilità di uscire tranquillamente, di andare al cinema, a teatro, hanno vissuto per anni ed anni ciò che noi abbiamo vissuto solo per qualche mese a causa della pandemia da Coronavirus. Forse soltanto adesso possiamo provare a capire cosa abbia significato vivere in quel modo.
A distanza di 28 anni dalla Strage di Capaci, sono ancora tanti gli interrogativi rimasti senza una risposta, ma ancora oggi, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, continuano ad essere dei punti di riferimento.
Sarà anche scontato ripeterlo dopo tutti questi anni, ma soltanto sulle nostre gambe potranno continuare a camminare le loro idee, questo ora e per sempre.
“L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, ma è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa, ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è coraggio ma incoscienza. “
Giovanni Falcone