Scarcerazioni e Covid19: quando l’informazione diventa un obbligo.

Articolo di Noemi Gatto

“Dove non c’è verità non c’è giustizia” .

E’ una delle più belle frasi mai pronunciate dal Dott. Borsellino. Va al di là della verità strettamente processuale o della prospettiva di giustizia cui si potrebbe pensare nell’immediato. Parole da interiorizzare ed applicare alla vita di tutti i giorni. Del resto, quotidianamente ci si scontra con la verità. Può assumere diverse vesti e forme, ma il fondamento è sempre lo stesso: qualunque verità deve essere figlia dell’onestà intellettuale. Probabilmente vi starete chiedendo il perché di questa premessa.

Ebbene, alla luce dei recenti fatti di cronaca che hanno scatenato o per cosi dire risvegliato lo spirito critico dell’intera collettività, è fondamentale puntualizzare che una cattiva informazione è sempre una mezza verità. Ed una mezza verità nega la giustizia.

Ma entriamo nel cuore della tematica, oramai famosa ed ampiamente dibattuta in ogni sede fisica e virtuale: la “scarcerazione” di alcuni detenuti condannati per il delitto di cui all’art. 416 bis del c.p. o più semplicemente dei cosiddetti “boss mafiosi”.

La vicenda Bonura

E’ stata erroneamente addebitato al decreto legge n. 17/2020 definito anche decreto “Cura Italia”, il provvedimento del magistrato di sorveglianza del Tribunale di Milano che ha disposto il differimento della pena per Francesco Bonura, detenuto al 41 bis e condannato ad una pena di 18 anni e 8 mesi di cui gli restano da scontare meno di nove. Infatti, il “colonnello” di Bernardo Provenzano (chiamato così nell’ambiente criminale) nel dicembre 2020, tornerà ad essere un uomo libero.

Bonura, 78enne con gravi patologie fisiche è stato un protagonista indiscusso della mafia palermitana, imputato e condannato già al maxi-processo, ha costituito un punto di riferimento per il controllo di lavori pubblici e l’imposizione del pizzo nella sua città. Uomo fidato di boss mafiosi del calibro di Nino Rotolo, è stato uno dei più facoltosi costruttori di Palermo, i cui beni per diversi milioni di euro sono stati confiscati. Il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta lo definiva un mafioso “valoroso”. Insomma, un detenuto con un curriculum criminale degno di attenzione.

Secondo quanto riportato (inizialmente) da molteplici quotidiani, Bonura avrebbe usufruito della misura disposta dall’art. 123 del nuovo decreto legge, che prevede la possibilità per i detenuti la cui pena non sia superiore a diciotto mesi ed anche se costituente parte residua di una maggiore pena, di ottenere l’esecuzione differita presso la propria abitazione.

In verità -sarebbe bastato leggere il contenuto del citato articolo- la misura in questione è preclusa a quei soggetti condannati per taluno dei delitti indicati dall’art. 4-bis della legge n. 354/1975. E indovinate quale delitto è ricompreso nell’art. 4 bis? Proprio quello di associazione di stampo mafioso.

Ciò significa che nessun decreto ha mai legittimato la scarcerazione di alcun boss né tanto meno quella del Bonura.

La misura prevista dall’Esecutivo – considerata la problematica di sovraffollamento che contraddistingue gli istituti penitenziari italiani – è stata concepita con lo scopo esclusivo di snellire le carceri al fine di prevenire un’ipotetica diffusione di massa del virus Covid19.

Non si trattava allora di un escamotage politico, come sostenuto da alcuni, per consentire a soggetti condannati per fattispecie di reato particolarmente gravi di uscire indisturbati.

La magistratura, come vedremo fra poco, ha semplicemente scomodato la previgente normativa e cioè ha applicato legittimamente quanto previsto dall’art. 147 del codice penale.

In particolare, il comma 2 della citata disposizione prevede la possibilità di differire l’esecuzione di una pena, qualora si tratti di una pena restrittiva della libertà personale irrogata ad un soggetto che versi in uno stato di grave infermità fisica.

Tale statuizione non fa alcuna differenza in ordine alla tipologia di reato commesso, poiché non è altro che l’applicazione del principio contenuto nell’art. 27 della Costituzione secondo cui: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”

Tale principio è confermato -oseremmo dire prepotentemente- anche dall’art. 2 della Costituzione che tutela i diritti inviolabili dell’essere umano in quanto tale, detenuto e non, fra cui rientrano per ovvie ragioni, il diritto alla vita ed alla salute, e dagli artt. 2 e 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che ancora una volta ribadiscono il diritto alla vita ed il divieto di tortura intesa come trattamenti inumani o degradanti.

Che piaccia o no, lo Stato italiano ha il sacrosanto dovere di garantire il cittadino sia da uomo libero che non, in qualunque circostanza e con qualsiasi mezzo.

Ciò però, non rappresenta per chiunque e indistintamente una “lasciapassare”.

La previsione di cui si accennava poc’anzi infatti – prevista dall’art. 147 co. 2 del c.p.– presuppone una valutazione inerente la gravità dell’infermità fisica e dunque della malattia, considerando le condizioni di efficienza sanitaria del singolo istituto carcerario, intese come possibilità di fruire, in stato di libertà, di cure e trattamenti sostanzialmente diversi e più efficaci rispetto a quelli che possono essere prestati in regime di detenzione.

Dunque, può concludersi che nonostante la fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. sia un reato ostativo previsto dal 4 bis dell’o.p., per il quale generalmente non è prevista la possibilità di usufruire di benefici penitenziari o misure alternative, in casi eccezionali invece – come la collaborazione con la giustizia o quello prospettato dall’art. 147 c.p. alla luce di un’emergenza sanitaria quale è quella del Coronavirus – tale preclusione viene meno.

Tornando ai fatti di cronaca, la scarcerazione del Bonura è diventata inevitabilmente un precedente pericoloso. Capiamo il perchè.

Come si sono svolti i fatti?

Tutto parte dalla famigerata circolare del 21 Marzo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) in cui si chiedeva, alla luce dell’emergenza sanitaria in corso, di fornire all’autorità giudiziaria i nomi dei detenuti affetti da determinate patologie e con più di 70 anni di età.

Seppur – come chiarito in seguito dal dipartimento in una nota esplicativa della circolare – il documento non facesse alcun rimando ai detenuti in regime di massima sicurezza, il riferimento largamente generico avrebbe comunque allargato le “maglie” a favore dei criminali mafiosi e dei loro legali pronti a presentare le dovute istanze. Indubbiamente ci troviamo dinanzi un errore imperdonabile ed incomprensibile da parte dell’amministrazione penitenziaria che in maniera quasi pilatesca ha “scaricato” tutte le eventuali responsabilità sulla magistratura di sorveglianza.

E così, ancora una volta senza la benché minima motivazione, i magistrati sono stati additati come corrotti, incompetenti ed incapaci.

Peccato che l’autorità giudiziaria si limiti semplicemente ad applicare la normativa. E se le disciplina vigente risulta non equa o per rimanere fedele ai commenti collettivi scandalosa, l’unica responsabilità rimane dell’organo legislativo.

E’ innegabile che l’emergenza sanitaria sia stata particolarmente strumentalizzata ai fini delle scarcerazioni ed è altrettanto innegabile il fatto che si poteva prevedere ed evitare tutto ciò. In che modo? Elaborando in via precauzionale un piano che rispondesse ad eventuali esigenze sanitarie dei detenuti con patologie gravi. Com’è possibile che il DAP non abbia previsto anche in seguito alle rivolte di Marzo, una gestione capillare dell’emergenza all’interno degli istituti? Com’è possibile che un Paese come l’Italia dove il sovraffollamento delle carceri risulta essere da anni una piaga dolorosa, non abbia ancora provveduto a costruire ulteriori istituti penitenziari?

Sono quesiti che giornalisti, cittadini comuni e magistrati esposti in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata si sono posti.

Quesiti che sono destinati con molta probabilità a non avere una risposta. O forse si…

Gli ultimi aggiornamenti: le dimissioni di Basentini

E’ notizia delle ultime ore  l’approvazione da parte del CDM di un decreto legge pensato dal ministro della giustizia Bonafede per porre fine da un parte alle polemiche sulle scarcerazioni dei boss, dall’altra per “correggere il tiro.”

In attesa di leggerne il contenuto, possiamo prendere già atto della modifica che ha cambiato i presupposti per il differimento della pena.

Da oggi, i magistrati di sorveglianza prima di esprimersi rispetto all’eventuale differimento dovranno chiedere in via preliminare ed obbligatoria il via libera alla procura della città dove è stata emessa la sentenza e nel caso dei detenuti in regime di 41 bis anche alla Procura Nazionale Antimafia.

Altra notizia fresca è la nomina del pubblico ministero Roberto Tartaglia – oggi consulente della commissione parlamentare antimafia – come vice-capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Tartaglia è stato per dieci anni sostituto procuratore a Palermo impegnato in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata. E’ stato uno dei magistrati del pool di inchiesta sulla Trattativa Stato-mafia e ha seguito la gestione di alcuni detenuti come Provenzano, Lo Piccolo, i Graviano, i Madonia tutti detenuti al regime del 41bis e di collaboratori di giustizia eccellenti come Brusca e Spatuzza.

Indubbiamente un uomo delle istituzioni con un curriculum di grande valenza a cui non possiamo fare altro che augurare buon lavoro. Inoltre è oramai ufficiale, la notizia che Francesco Basentini anche lui magistrato, avrebbe presentato le proprie dimissioni dal ruolo di capo del DAP.

Questa vicenda ha messo in luce tutta la fragilità del sistema penitenziario italiano. Ha dimostrato come in un secondo la credibilità di uno Stato possa crollare, palesando il bisogno disperato dell’Italia di nominare le persone giuste per il ruolo giusto. Ha evidenziato gravi problematiche di politica legislativa che occorre risolvere tempestivamente. Ma più di tutto, ha dimostrato che quando vuole, la società collettiva sa essere unita. Sa farsi sentire. Sa urlare e pretendere a gran voce ciò che ritiene giusto. In altre parole sa indignarsi. Ed è una cosa bellissima, perché l’indignazione è il motore di tutto, la spinta che fa andare avanti, ti tiene in vita, ti mantiene vigile e critico sulle cose che ti circondano. Sapersi indignare non è da tutti e non è per tutti.

Seppur l’indignazione sia un’arma potentissima da sola non basta. E’ necessario corredarla di una corretta informazione. Informazione che in questo caso, è stata spesso trascurata o del tutto assente.

Pertanto continuiamo ad indignarci, ad urlare a gran voce ciò che riteniamo ingiusto, ma prima leggiamo, informiamoci, comprendiamo. Diventiamo cittadini preparati e consapevoli.

L’Italia ha bisogno di gente competente e coraggiosa, perchè ad indignarsi ci vuole tanto coraggio.

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