Fiammetta Borsellino: «25 anni di schifezze e menzogne»

Dopo 25 anni di silenzio, parla Fiammetta Borsellino.

«Sono stati buttati 25 anni. Un quarto di secolo trascorso a costruire falsi pentiti con lusinghe e con torture».

Sono state queste le parole più dure di Fiammetta Borsellino, rese dopo l’audizione in commissione antimafia. Quest’anno il suo 19 luglio non lo ha trascorso come gli altri, a ricordare suo padre in una chiesetta a Pantelleria.

Ha parlato in commissione antimafia per mettere in luce alcuni aspetti inquietanti sulla strage che le portò via il padre quando aveva solo 19 anni.
Dopo anni di silenzi senza neanche un’apparizione pubblica, ha consegnato atti processuali dai quali è possibile evincere in che modo le inchieste sulla strage seguirono da subito, direzioni sbagliate.
Tra i documenti risulta una lettera di Ilda Boccassini, allora p.m. a Caltanissetta, che invitava i colleghi a prestare attenzione alle dichiarazioni molto spesso contraddittorie del falso pentito Vincenzo Scarantino, considerato recentemente dalla Corte d’assise di Caltanissetta “indotto a mentire”.
Furono proprio quelle dichiarazioni aggiunte a quelle di altri falsi collaboratori di giustizia, a far condannare degli innocenti assolti dalla Corte D’Appello di Catania nel giudizio di revisione.
Fu il “mea culpa” di Gaspare Spatuzza, importante mafioso che partecipò (davvero) alla realizzazione della strage, a riscrivere tutta la vicenda.
Fiammetta in commissione ha infatti dichiarato: «Chiedo scusa pubblicamente anche a nome di chi avrebbe dovuto farlo, agli innocenti condannati ingiustamente. Non voglio parlare di responsabilità specifiche, ma certo – dice – quell’eccidio meritava che a fare l’inchiesta fossero persone con esperienza.»

La prima volta che parlò pubblicamente del clamoroso depistaggio delle indagini, lo fece salendo sul palco in via D’Amelio il 23 maggio scorso in diretta televisiva, per ricordare il sacrificio di Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta.

La voce era tremante, cercava di nascondere il dolore e la rabbia per questi 25 anni. In quel momento calò un silenzio, quello che scende quando si capisce l’importanza di un momento decisivo.

«Dobbiamo pretendere con forza la restituzione di una verità, non qualsiasi, non una mezza verità’, ma quella utile a dare un nome e un cognome alle menti raffinatissime, che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare questi servitori dello Stato e impedire la ricostruzione dei fatti.
Quelle menti raffinatissime che hanno permesso il passare infruttuoso delle ore immediatamente successive alle esplosioni, ore decisive per acquisire le prove fondamentali. Questo non può passare in secondo piano e lo stesso vale per le false piste investigative, per le quali alcuni uomini hanno scontato anni di detenzione. Questa restituzione di verità deve esserci anche per loro.»

Accanto a lei c’era la zia, Rita Borsellino la quale aggiunse: «I brandelli di verità, i coriandoli di verità non ci interessano, anzi ci danno fastidio. Noi la verità la vogliamo per intero. Ci sono dei punti fermi da cui ripartire come delle sentenze, una che dice che la trattativa tra Stato e mafia c’è stata, che ci sono stati innocenti, poi colpevoli per altre cose, che sono finiti in galera perché qualcuno ha voluto mandarceli per dare in pasto all’opinione pubblica delle cose. Noi vogliamo sapere ora perché, a chi serviva e a chi è servito»

Fiammetta dopo queste prime dichiarazioni, ha rilasciato altre interviste, prima a Sandro Ruotolo e poi al Corriere della Sera, denunciando anche l’isolamento al quale fu sottoposta la sua famiglia dopo la morte del padre: «Nessuno si fa vivo con noi, non ci frequenta più nessuno, magistrati o poliziotti. Si sono dileguati tutti. Le persone oggi a noi vicine le abbiamo incontrate dopo il ’92. Nessuno di quelli che si professavano amici hanno ritenuto di darci spiegazioni anche dal punto di vista morale».

Parlando delle indagini e facendo riferimento ai giudici che se ne occuparono, rimprovera loro, di non avere mai ascoltato suo padre, il quale in uno dei suoi ultimi incontri pubblici si definì “testimone” dichiarando di essere a conoscenza di fatti, che avrebbero aiutato le indagini sulla strage di Capaci.

Fiammetta aggiunse inoltre, che soltanto dopo molto tempo dalla strage di via D’Amelio, ricevettero dal questore La Barbera, la borsa del giudice senza l’agenda rossa e senza nemmeno disporre l’esame del Dna.
«Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D’Amelio passò la mandria dei bufali».
Nell’intervista rilasciata al giornalista Ruotolo ha sottolineato: «A mio padre stavano a cuore i legami tra mafia, appalti e potere economico. 
Il capo, Piero Giammanco, assegnò la delega a mio padre soltanto con una telefonata alle 7 del mattino di quel 19 luglio. Ma p.m. ed investigatori non hanno mai assunto come testimone Giammanco, colui che ha omesso di informare mio padre dell’’arrivo del tritolo a Palermo…»

Tante ombre ha cercato di mettere in luce Fiammetta in questi mesi, chiedendo con forza la restituzione di una verità. Nonostante la morte del padre abbia scosso l’animo di molti italiani, come se molti fossero rimasti incastrati in quelle lamiere, in quel fumo, in quel dolore, sembra che ciò non basti. Afferma Fiammetta infatti: «Dovrebbe essere l’intero Paese a sentire il bisogno di una restituzione della verità. Ma sembra di vivere in un Paese che preferisce nascondere verità inconfessabili.»

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